NULLA VERITAS SINE TRADITIONE


28 dicembre 2023

La Compagnia dei Sacerdoti di San Sulpizio

 


La Compagnia dei Sacerdoti di San Sulpizio, fondata nel 1642 dal venerabile Jean-Jacques Olier (1608-1657), si proponeva la formazione del clero nei seminari.

Olier, ordinato sacerdote nel 1633, dopo aver esercitato per un certo tempo il ministero sacerdotale a Pébrac nell'Alvernia, di cui era abate commendatario, seguendo il consiglio di San Vincenzo de' Paoli, raccolse un piccolo numero di sacerdoti e di chierici in una casa di Rue Vaugirard a Parigi (1642), poi trasferitisi nel sobborgo di Saint-Germain (1645), all'epoca uno dei peggiori di Parigi, presso la chiesa di San Sulpizio, dalla quale derivò il nome di “sulpiziani”.

In questo primo seminario, superiori e alunni conducevano vita comune, per raggiungere la perfetta formazione sacerdotale mediante l'esempio e la parola; tale usanza costituiva la dote caratteristica e speciale dei sulpiziani. Infatti, i direttori e i professori, anche al presente, fanno la vita dei seminaristi, prendono parte a tutti gli esercizi della comunità e sono sempre a disposizione degli alunni.

Olier rifiutò l'episcopato offertogli da Luigi XIII e da Richelieu, ma non poté rifiutare la direzione della parrocchia di San Sulpizio, che contava allora oltre 150.000 anime e nella quale rimase per dieci anni in attivo apostolato, fondandovi scuole, orfanotrofi e associazioni per l'assistenza degli infermi, così che i suoi seminaristi poterono anche esercitarsi nel ministero pastorale.

Quando egli morì, aveva già veduto la fondazione del Gran Seminario di Parigi (1651) e i sacerdoti della sua compagnia alla direzione di vari seminari francesi, che dopo la sua morte dovevano sempre più moltiplicarsi.

Il suo successore alla direzione generale dell'istituto, Alexandre Le Ragois de Bretonvilliers, ottenne dal cardinale Flavio Chigi, legato pontificio in Francia, le lettere patenti di approvazione (1664) e, grazie alla considerevole fortuna della sua famiglia, poté largamente contribuire alla fondazione del seminario di Montreal in Canada, dove Olier aveva già inviato quattro dei suoi nel 1656. Durante il governo del terzo superiore generale, mons. Tronson (1676-1700), fu fondato il Piccolo Seminario di Parigi.


20 novembre 2023

Le origini dei poemi omerici non sono mediterranee (seconda parte)

 


Per gli storici la base narrativa su cui vennero costruite l’Iliade e l’Odissea sarebbero stati i racconti degli aedi, i poeti girovaghi che narravano le gesta eroiche dei re Achei. L’origine della civiltà achea (o micenea) viene ricondotta dagli studiosi a quella minoica, che ha nell’isola di Creta il suo fulcro, ma non tutti sono di questo parere, come Stuart Piggott (“Non c’è sangue minoico o asiatico nelle vene delle muse greche…esse si collocano lontano dal mondo cretese-miceneo e a contatto con gli elementi europei di cultura e di lingua greca”). E’ possibile allora che i Micenei fossero provenuti dal nord Europa?

Adriano Romualdi, nel suo “Gli Indoeuropei: origini e migrazioni”, riporta una considerazione di O. Reche, studioso tedesco, secondo il quale «difficilmente i Greci avrebbero adoperato la parola “arcobaleno” (iris) per designare l’iride della pupilla (come i Tedeschi: Regenbogenhaut = iride) se avessero avuto occhi scuri. Solo un popolo con occhi azzurri, o grigi, o verdi può chiamare l’occhio “arcobaleno”».

Gli Dei e gli eroi delle epopee omeriche sono spesso descritti con attributi delle popolazioni nordiche: Achille, modello dell’eroe acheo, è biondo come Sigfrido, biondi sono detti Menelao, Radamante, Briseide, Meleagro, Agamede, Ermione. Elena, per cui si combatte a Troia, è bionda, e bionda è Penelope nell’Odissea. Afrodite è bionda, come pure Demetra. Atena è, per eccellenza, l’ “occhicerulea Atena”. Il termine adoperato è glaukopis, che certo è in relazione anche col simbolismo della civetta, sacra alla dea (glaux = civetta: occhi scintillanti, occhi di civetta), ma che in senso antropomorfico vale “occhicerulea”: Aulo Gellio (Il, 26, 17) spiega glaucum con “grigio-azzurro” e traduce glaukopis con caesia “die Himmelbluaugige“.

Anche gli indizi archeologici citati da Vinci sembrerebbero condurre verso un’origine nordica dei Micenei, come il ritrovamento fatto dal prof. Martin P. Nilsson di grandi quantità di ambra baltica nelle più antiche tombe micenee (che invece scarseggia sia nelle sepolture più recenti, sia in quelle minoiche a Creta), o il ritrovamento di un graffito miceneo nel complesso megalitico di Stonehenge, datato attorno all’inizio del II millennio a.C., che attesterebbe la presenza degli Achei nel nord dell’Europa in un’epoca precedente all’inizio della civiltà micenea in Grecia.

Quindi alla luce di queste considerazioni fatte, e con l’ausilio delle descrizioni omeriche e di altri testi dell’antichità classica, Vinci ha ricostruito l’intera toponomastica omerica nella zona del Mar Baltico, procedimento sul quale si impernia tutta la sua opera con risultati molto interessanti. Ad esempio l’Itaca di Ulisse sarebbe da identificarsi con Lyo, una delle tre principali isole di un piccolo arcipelago danese (la altre due sono Langeland, corrispondente a Dulichio, e Aero, la Same omerica), che coinciderebbe perfettamente con le indicazioni del poeta sia per la posizione, sia per le caratteristiche topografiche e morfologiche. Mentre il Peloponneso, a cui Omero si riferisce con “isola di Pelope”, sarebbe da identificare nell’isola danese di Sjaelland e non nella penisola greca. Insomma la ricostruzione dei toponimi effettuata dal Vinci riscontra una forte coerenza e precisione, che è però impossibile sintetizzare in questa sede trattandosi di un’opera di 700 pagine!

Ma perché gli Achei sarebbero emigrati dall’area baltica per giungere nella penisola greca? La causa sarebbe stata l’irrigidimento del clima dell’area baltica, avvenuto intorno alla metà del II millennio, individuato in quest’epoca dalla paleoclimatologia, che avrebbe costretto gli Achei a spingersi verso sud lungo il corso del fiume Dnepr giungendo al Mar Nero e all’Egeo. Qui avrebbero fondato le città micenee, rinominandole con i nomi delle località nordiche, in modo non corrispondente alla collocazione originaria per le differenze geografiche e morfologiche che ci sono tra le due regioni.

Con la migrazione avrebbero inoltre portato con sé i propri tradizionali racconti orali, una saga poetica ambientata nelle località della patria originaria, tra il mar Baltico e il Mare del Nord. La guerra di Troia si sarebbe svolta dunque non intorno al XIII secolo a.C., come normalmente ritenuto, ma intorno al XVIII secolo a.C. Dopo ottocento o novecento anni di trasmissione orale, i poemi sarebbero quindi stati trascritti tra l’VIII e il VII secolo a.C.

Alla luce di quanto è stato riportato si può affermare, senza il timore di commettere un azzardo, che le origini dei poemi omerici non devono essere collocate nell’area mediterranea.


da “Il Mito di Theuth”


14 ottobre 2023

Le origini dei poemi omerici non sono mediterranee (prima parte)

 


Nel lontano 1903, Bal Gangadhar Tilak, attivista e politico indiano, pubblicava “La dimora artica nei Veda”, opera nella quale si sosteneva, sulla base di una meticolosa analisi dei testi sacri agli Indù, che la patria originaria (Urheimat) degli Arii fosse da collocare in prossimità del Polo Artico. La tesi del Tilak aveva qualcosa di sensazionale e non passò inosservata: viene citata sia dallo studioso francese della Tradizione René Guénon nel suo “Forme tradizionali e cicli cosmici” (1970, pubblicazione postuma) che da Julius Evola in “Rivolta contro il mondo moderno” (1930). Ma i Veda non sono i soli testi della Tradizione a far riferimento a una patria polare degli Arii, dal momento che si parla dell’ “Airyana Vaejah” nell’Avesta persiana, che il prof. Onorato Bucci ricollega nei suoi studi alla sede di origine nordica.

Anche tra i testi del periodo classico gli esempi non mancano: il navigatore Pitea (circa 380 a.C. – circa 310 a.C.) nei suoi scritti fa riferimento all’isola di Thule, terra di fuoco e ghiaccio nella quale il sole non tramonta mai, a circa sei giorni di navigazione dall’attuale Gran Bretagna. Secondo la sua descrizione l’economia del paese sarebbe stata legata prevalentemente all’agricoltura, mentre l’alimentazione dei suoi abitanti sarebbe stata costituita da frutta e latte, oltre che da una particolare bevanda fatta di grano e miele che loro stessi fabbricavano. A differenza delle popolazioni dell’Europa meridionale, gli abitanti di questa isola avevano granai all’interno dei quali effettuavano la trebbiatura dei cereali.

La questione di una possibile dimora originaria nordica degli Arii è stata riportata in auge in tempi relativamente recenti da un interessante studio di un ingegnere italiano, Felice Vinci, dal titolo “Omero nel Baltico”, libro che in meno di vent’anni è giunto alla quinta edizione.

Secondo la tesi dell’autore, i poemi omerici presenterebbero delle descrizioni geografiche e climatiche che non troverebbero alcun riscontro nell’area del Mediterraneo. I riferimenti alla “fitta nebbia”, il mare che appare “livido” e “brumoso”, il costante incontro che i personaggi delle vicende fanno con agenti climatici quali nebbia, vento, freddo, pioggia e neve sono certamente inverosimili, se non improbabili, per un clima caldo come quello mediterraneo, trovando semmai riscontro in quello freddo del nord. Non a caso i personaggi omerici vestono con tunica e “folto mantello”.

Lo stesso Vinci sottolinea che in tempi recenti alcuni studiosi sono riusciti a decifrare la lingua micenea (“lineare B”), delle tavolette provenienti da Cnosso, Pilo e Micene, mettendo in rilievo l’assoluta mancanza di contatto tra la loro realtà geografica e quella di Omero.

La questione relativa alla geografia delle opere omeriche non è certamente un’esclusiva dei nostri tempi, dal momento che era già dibattuta nell’antichità. Eratostene (matematico, astronomo, geografo e poeta, Cirene, 276 a.C. – Alessandria d’Egitto, 194 a.C.), ad esempio, descriveva Omero come un inventore di favole, mentre Strabone (storico e geografo greco, 63 a.C. – 23 d.C.), che considerava il poeta il fondatore della scienza geografica, non mancava di sottolineare alcune stranezze, come l’isola di Faro, che, situata nei pressi del porto di Alessandria, veniva inspiegabilmente collocata a un giornata di navigazione dall’Egitto. Anche la posizione di Itaca, che ritroviamo descritta con precisione nell’Odissea, (secondo Omero è la più occidentale di un arcipelago che comprende tre isole maggiori: Dulichio, Same e Zacinto) non trova alcuna corrispondenza nella realtà geografica dell’omonima isola nello Ionio, la quale è collocata a nord di Zacinto, a est di Cefalonia e a sud di Leucade, e, anche dal punto di vista topografico, ha ben poco a che vedere con l’Itaca omerica.

Continuando a sfogliare il folto elenco di incongruenze e anomalie, troviamo la descrizione pianeggiante del Peloponneso, riportata in entrambi i poemi omerici, quando in realtà essa si presenta come una zona montuosa, o la successione delle tappe del viaggio di Ulisse che ha lasciato non poche perplessità agli studiosi dal momento che evidenzia una totale mancanza di logica itinerante.


da “Il Mito di Theuth”


29 settembre 2023

San Michele Arcangelo

 


Un tempo, al termine di ogni Santa Messa, il sacerdote pregava così:

«San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia; sii il nostro aiuto contro la malvagità e l'insidia del diavolo.

Comandi sopra di lui il Signore, e tu, principe delle milizie celesti, sprofonda nell'inferno, con la tua divina potenza, Satana e tutti gli altri spiriti maligni che si aggirano per il mondo per la perdizione delle anime».


24 giugno 2023

Il mito di Atlantide



La leggenda di Ys, la mitica isola bretone sprofondata nelle acque marine a causa della sua corruzione, ricorda il più famoso mito di Atlantide, l’isola che sprofondò anch’essa in fondo all’oceano chiamato appunto “Atlantico”.

Di questo mito ci racconta il filosofo greco Platone, basandosi su alcuni documenti del sacerdote egiziano Sonchis di Sais, maestro del politico ateniese Solone.

Secondo la leggenda, il nome “Atlantide” sarebbe derivato dal gigante Atlante, signore dell’oceano e figlio di Poseidone. Egli fu il primo governatore dell’isola e colui che, secondo la mitologia classica, reggeva sulle sue spalle il peso del mondo. Si pensa che l’oceano “Atlantico” si chiami così proprio in seguito allo sprofondamento di Atlantide nelle sue acque.

Platone racconta che l’isola si trovava oltre le Colonne d’Ercole, ossia oltre l'odierno stretto di Gibilterra, che nei tempi antichi segnava la fine del mondo conosciuto: «… aveva l’isola Atlantide davanti al passaggio che voi chiamate Colonne d’Ercole».

Atlantide sarebbe, secondo Platone, sprofondata a causa di un terremoto o di un maremoto. Il fatto fu particolarmente eccezionale considerando che, secondo il filosofo, sarebbe avvenuto tutto in una sola notte: «nel volgere di un giorno e di una brutta notte».

Secondo un’altra versione della leggenda, la quale vuole dare un intento moralistico e fiabesco alla vicenda, Atlantide sarebbe sprofondata in mare per punizione divina, ossia per porre freno alla corruzione portata dalle sfrenate ricchezze accumulate dai suoi abitanti. Lo stesso Platone ci rivela che si trattava di un’isola molto fiorente poiché vi facevano scalo molti mercanti: «Serviva come passaggio alle altre isole a quelli che viaggiavano, e da queste parti si poteva raggiungere il continente, sulla riva opposta di questo mare» (per “continente” si intende l’Europa). L’isola era dunque un approdo sicuro per le navi che trasportavano ricchezze. Aggiunge Platone: «… allora per quel mare là si poteva passare».

Platone narra del mito di Atlantide nelle sue opere filosofiche “Timeo” e “Crizia”, ovvero nei dialoghi avvenuti nel 421 a.C. tra Socrate e i due filosofi citati, riportati nelle due opere intorno al 360 a.C.

Nel “Crizia” viene riferito che, secondo la leggenda tramandata dall’antico Egitto, lo sprofondamento dell’isola sarebbe avvenuto 9000 anni prima rispetto all’epoca dei dialoghi narrati. Tuttavia, oggi si è propensi a credere che la parola “anni” sia stata mal tradotta dall’egiziano, e che invece si trattasse di 9000 mesi, cosa che collocherebbe storicamente il fatto nel 1149 a.C. quando l’Egitto, governato dal faraone Ramses III, fu invaso dai popoli del mare.

Alcuni pensano però che quest’isola non sia mai esistita e che la leggenda sia stata inventata dal filosofo greco, e sia quindi uno dei tanti miti di cui si serviva a scopo didattico. Uno dei maggiori critici dell’autenticità della storia fu proprio l’allievo di Platone, Aristotele, a cui si attribuisce la celebre frase: «L’uomo che l’ha sognata (Atlantide), l’ha anche fatta scomparire».

Tuttavia, il mito dell’isola sotto il mare ha affascinato migliaia di scrittori, romanzieri e registi nel corso dei tempi fino ad arrivare ai giorni nostri.

Nel 1685 Johann Christian Bock scrisse il “De Atlantide ad Timaeum atque Critiam Platonis”, dove analizzò tutte le diverse ipotesi sul mito. Nel 1976, Charles Berlitz scrisse invece “Il mistero di Atlantide” (The mystery of Atlantis). Gli scritti più famosi sull’Atlantide sono però sicuramente quelli di Jules Verne, che la citò nel suo romanzo “Ventimila leghe sotto i mari” del 1870 (e in seguito scrisse “L’ isola misteriosa” del 1874).

Probabilmente, Platone si ispirò ad alcune leggende del mondo classico, importate o dal mondo ebraico (il diluvio universale). Nel IV secolo a.C., l’esploratore greco Pitea raccontò il mito dell’isola di Thule (citata anche da Tacito nel “De vita et moribus Iulii Agricolae”), fatta di fuoco e di ghiaccio e collocata lungo le coste della Britannia, altra leggenda che potrebbe aver ispirato il filosofo greco.

Il popolo dei Toltechi e degli Aztechi si diceva proveniente dalla bellissima isola di Aztlàn (nome che ricorda l’Atlantide) anticamente abitata dagli dèi, e la stessa cosa tramandavano gli indiani Dakota del Nord America. Tuttavia, tutti questi popoli avevano dovuto abbandonare la propria terra d’origine in seguito a diversi maremoti che l’avevano cancellata dalla carta geografica. Così afferma il Codex Chimalpopoca della tradizione azteca: «In un sol giorno tutto fu perduto… anche la montagna sparì sotto l’acqua». E il libro sacro dei Maya conferma: «… scomparve ad un tratto durante la notte». Anche queste leggende presentano una forte connessione con l’isola descritta da Platone.

Anche ad Haiti e nelle Antille si crede ad un’inondazione avvenuta in epoca antichissima, che cancellò interi continenti lasciando intatte solo le montagne e le isole.

Nell’Ottocento, dal mito di Atlantide nacque quello dell’isola o continente Lemuria, considerata posta tra l’India e l’Africa prima della deriva dei continenti: la presenza di lemuri in Madagascar e in India, ma non nel continente africano, spinse nel 1864 lo zoologo britannico Philip Sclater a ipotizzare che un tempo il Madagascar facesse parte di un continente andato perduto, a sud di quello indiano. Un’altra isola immaginaria di cui nacque il mito nell’Ottocento fu quella di Mu, nell’Oceano Pacifico, ispirata dagli scritti di Charles Étienne Brasseur de Bourbourg.


19 maggio 2023

La leggenda di Ys

 


La Bretagna, importante regione situata a nord-ovest della Francia, è legata alla leggenda della mitica isola di Ys, situata nella baia di Douarnenez, che in bretone significa appunto “territorio dell’isola“. Il nome “Ys“, invece, potrebbe derivare dal francese arcaico “isle” che significa infatti “isola”.

Nei secoli antichi, l’isola di Ys esisteva veramente, ma nel V secolo d.C. venne completamente sommersa dalla marea e cancellata dalla carta geografica, a causa di un terribile maremoto. Le sue rovine sono ancora visibili in fondo all’Oceano Atlantico e per molti secoli si è continuato a pregare e celebrare messe per l’anima dei suoi defunti abitanti.

Questo evento storico ha dato vita ad un’affascinante leggenda secondo cui quest’isola, situata sotto al livello del mare, riuscisse inizialmente a rimanere perfettamente asciutta grazie a un sistema di dighe ben chiuse a chiave che la proteggevano dall’acqua.

Il re dell’isola era il buon Gradlon, nome talvolta tradotto come “Grallon “. Questo re era saggio e giusto, e si era trasferito sull’isola dalla Cornovaglia, regione della Gran Bretagna.

Un giorno affidò le chiavi delle dighe alla sua unica e bellissima figlia Dahud (o Dahut). Di questa principessa si diceva che avesse una straordinaria bellezza ma anche un atteggiamento dissoluto, e che fosse dedita a riti pagani, se non addirittura alla stregoneria.

Per questo, di lei si innamorò il Diavolo, che venne a trovarla travestito da giovane e affascinante straniero. Egli riuscì a plagiarla durante un ballo e a convincerla a cedergli le chiavi che il padre le aveva affidato (secondo un’altra versione, gliele sottrasse di nascosto durante il ballo). Dopodiché, il diavolo le usò per aprire le dighe dell’isola e, una volta avvenuto il misfatto, questa venne completamente sommersa dall’acqua e distrutta.

Riuscirono a salvarsi solamente il re e pochi abitanti, a scapito, però, della vita della principessa Dahud: infatti, per salvare la sua anima posseduta dal demonio, San Guénolé (o addirittura Dio in persona, secondo altre versioni) ordinò al re di gettarla in mare per liberarla dalla sua possessione diabolica.

La principessa non morì ma venne trasformata in una sirena che continuò ad abitare l’oceano e ad affascinare i marinai col suo canto.

Questa leggenda vuole dare una spiegazione soprannaturale a un evento storico realmente avvenuto ma anche mettere in guardia dal peccato e dai riti pagani. Nata nel V secolo d.C., quando in Bretagna avvenivano le prime conversioni al Cristianesimo, la leggenda vuole dimostrare come il paganesimo e la vita dissoluta siano fonte di tragedie e sofferenze.

In questa leggenda viene anche menzionato San Guénolé, il patrono di Quimper, la città che sorge vicino alle rovine dell’isola. Il suo nome viene talvolta tradotto in italiano come “Corentino”, un importante personaggio storico che nacque in Cornovaglia e migrò in Bretagna all’inizio del V secolo.

Egli fu eremita e vescovo di Quimper, ordinato proprio dal suo amico, il leggendario re Gradlon. Si racconta che la loro amicizia nacque quando il re smarrì la strada durante una battuta di caccia e capitò nell’eremo del santo, il quale lo sfamò con del pesce appena pescato.

Molto probabilmente anche questa leggenda è un’allusione alla conversione dei Britanni al cristianesimo: il re Gradlon, dedito ai culti pagani, aveva metaforicamente “smarrito la via” alla ricerca della verità. Si era poi imbattuto nell’eremo di Guénolé, il quale gli aveva fatto conoscere Gesù Cristo simboleggiato dalla figura del “pesce” (in greco “ichthýs“, parola formata dalle iniziali di “Iesùs Christòs Theù Hyiòs Sotèr “: Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore).

Questa leggenda, assieme alle storie del “Ciclo Bretone” della “Chanson de Geste” su Camelot e i Cavalieri della Tavola Rotonda, è una delle testimonianze del particolare periodo storico che segna il passaggio tra l’Epoca Classica e il Medioevo, periodo contraddistinto da grandi invasioni e alterazioni culturali, ma soprattutto dalla conversione delle tribù barbariche dal Paganesimo al Cristianesimo.


14 aprile 2023

Non abbiamo fratelli maggiori

 


L’Antica Alleanza è ancora valida? Gli ebrei devono convertirsi a Cristo? Che cos’è veramente Israele? Chi sono i giudaizzanti? Ha senso parlare di “radici giudaico-cristiane”?

Perché l’Antica Alleanza è stata revocata e gli ebrei hanno bisogno di Gesù per salvarsi.

Il libro di don Curzio Nitoglia mostra gli errori di Ratzinger e Bergoglio riguardo al problema ebraico/talmudico, affrontando, in maniera specifica: la questione del “Deicidio”; il problema se i giudei crocifissori di Gesù sapessero che Egli era Dio; quale sia l’atteggiamento di Dio nei confronti del Giudaismo religione post-biblica dopo il Deicidio; il grave problema di Fede che la Dichiarazione “Nostra aetate” pone alla coscienza dei cattolici fedeli; infine – studiando questi quattro quesiti alla luce della teologia cattolica tradizionale – la questione del giudeo-cristianesimo e dei cristiani giudaizzanti, purtroppo convogliati, autorizzati e spinti a “giudaizzare” tranquillamente da Bergoglio in maniera esplicita e ancor più da Ratzinger in maniera quasi occulta o occultata.

Il 28 ottobre del 1965 venne promulgata la dichiarazione conciliare “Nostra aetate” sui rapporti tra Giudaismo post-biblico o talmudico (ben distinto dal Vecchio Testamento) e Cristianesimo. A partire da essa vi è stata una vera “sovversione” della dottrina cattolica sul tema della contro-religione giudaica-post-cristiana.

Giovanni Paolo II ha fatto di “Nostra aetate” il “cavallo di battaglia” del suo lungo pontificato e l’ha diffusa dappertutto. Egli – appena due anni dopo la sua elezione pontificia – ha dichiarato, alla luce di “Nostra aetate”, che “l’Antica Alleanza non è stata mai revocata” (Discorso di Magonza, 17 novembre 1980) e, sei anni dopo, che “gli ebrei sono fratelli maggiori dei cristiani nella Fede di Abramo” (Discorso alla sinagoga di Roma, 13 aprile 1986).

A partire da queste due asserzioni (oggettivamente contrarie alla fede cattolica), sia Benedetto XVI sia Francesco non solo hanno ribadito i medesimi errori ma – come spiega don Curzio Nitoglia nel suo libro – ne hanno esplicitati dei nuovi (“gli ebrei post-biblici non hanno bisogno di Gesù per salvarsi”), già contenuti virtualmente in esse e in “Nostra aetate”.

La dottrina cattolica insegna, al contrario: 1. che gli ebrei sono fratelli maggiormente separati dei cristiani e non loro fratelli maggiori nella fede; 2. che l’Antica Alleanza è stata rimpiazzata dalla Nuova ed Eterna Alleanza; 3. che tutti gli uomini (ebrei compresi) hanno bisogno di Gesù (unico Redentore universale dell’umanità) per salvarsi.

Infine – nei primi mesi dell’anno 2019 – è stato pubblicato il libro “La Bibbia dell’Amicizia. Brani della Torah/Pentateuco commentati da ebrei e cristiani” con una “Prefazione” a cura di Bergoglio. Subito dopo – verso il mese di aprile del medesimo anno – è uscito un secondo libro sullo stesso tema, intitolato “Ebrei e Cristiani”, scritto da Benedetto XVI in collaborazione col rabbino-capo di Vienna, Arie Folger.

In questi due libri Francesco e Benedetto XVI spargono numerosi errori, se non vere e proprie eresie materiali, riguardo alla Fede nella divinità di Cristo, alla Ss. Trinità, ai rapporti tra Antico e Nuovo Testamento, alla Redenzione universale di Gesù e al dogma “Extra Ecclesiam nulla salus!”.


12 marzo 2023

Abramo e le Storie Tese

 


Secondo quanto narrato nella Bibbia, Sara, moglie di Abramo, seguì il marito da Ur ad Harran e poi in Egitto:

Venne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava su quella terra. Quando fu sul punto di entrare in Egitto, disse alla moglie Sarài: «Vedi, io so che tu sei donna di aspetto avvenente. Quando gli Egiziani ti vedranno, penseranno: «Costei è sua moglie», e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. Di', dunque, che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te».

Quando Abram arrivò in Egitto, gli Egiziani videro che la donna era molto avvenente. La osservarono gli ufficiali del faraone e ne fecero le lodi al faraone; così la donna fu presa e condotta nella casa del faraone. A causa di lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini, schiavi e schiave, asine e cammelli. Ma il Signore colpì il faraone e la sua casa con grandi calamità, per il fatto di Sarài, moglie di Abram. Allora il faraone convocò Abram e gli disse: «Che mi hai fatto? Perché non mi hai dichiarato che era tua moglie? Perché hai detto: «È mia sorella», così che io me la sono presa in moglie? E ora eccoti tua moglie: prendila e vattene!». Poi il faraone diede disposizioni su di lui ad alcuni uomini, che lo allontanarono insieme con la moglie e tutti i suoi averi. (Genesi 12, 10-20)

Come visto, Sara fu intenzionalmente ceduta al faraone da Abramo, avendo egli stesso affermato che fosse sua sorella e non sua moglie, ma “il Signore” punì il faraone e questi dovette restituirla al marito.

Dal punto di vista etico e, in particolare, della morale cristiana, il giudizio sulla questione non può che essere fortemente negativo.

Abramo non si fece alcuno scrupolo nel cedere la propria moglie, oltretutto con l'inganno, allo scopo di ottenere dei meri vantaggi materiali, ma la cosa ancora più singolare è che, a seguito di ciò, “il Dio di Abramo” punì severamente l'ignaro faraone e non lo spregevole “patriarca”.

Ne consegue che “il Dio di Abramo” non è lo stesso Dio rivelatosi in Gesù Cristo, e che il Vecchio Testamento non può costituire il fondamento del Cristianesimo.

Ma vi è di più: giunti in Palestina, Sara, ormai in età avanzata e senza prole, spinse Abramo ad avere dei figli con la schiava egiziana Agar.


11 febbraio 2023

Santa Bernadette Soubirous

 


In un’epoca di ateismo avanzante, la fede limpida di Bernadette è stata la riprova che Dio si serve dei più piccoli per realizzare i suoi più grandi disegni, come insegnano Gesù e tutte le Sacre Scritture.

“È perché ero la più povera e la più ignorante che la Santa Vergine mi ha scelta. Se ne avesse trovata una più ignorante, avrebbe preso lei”, disse in un’occasione alla superiora.

Grazie alla sua umiltà, fortificata dal Rosario che recitava ogni giorno (non a caso, quando Maria le apparve per la prima volta, le venne naturale tirar fuori la coroncina), Bernadette patì sempre tutto con pazienza, compresi i tanti interrogatori che le fecero per appurare quanto aveva visto e udito. 

Non si contraddisse mai, raccontando sempre la stessa versione, sia davanti agli scettici che agli uomini di fede, e a chi non si faceva convinto chiariva con estremo candore la missione affidatale dalla Madre celeste: “Non sono stata incaricata di farvi credere. Sono stata incaricata di riferire”.


13 gennaio 2023

Contro il "Modernismo"