NULLA VERITAS SINE TRADITIONE


12 febbraio 2012

Il mulino di Amleto



Il mulino di Amleto è uno di quei rari libri che mutano una volta per tutte il nostro sguardo su qualcosa: in questo caso sul mito e sull’intera compagine di ciò che si usa chiamare «il pensiero arcaico». Cresciuti nella convinzione che la civiltà abbia progredito «dal mythos al logos», «dal mondo del pressappoco all’universo della precisione», in breve dalle favole alla scienza, ci troviamo qui di fronte a uno spostamento della prospettiva tanto più sconcertante in quanto è condotto da uno dei più eminenti illustratori del «razionalismo scientifico»: Giorgio de Santillana. Proprio lui, che aveva dedicato studi memorabili a Galileo e alla storia della scienza greca e rinascimentale, si trovò un giorno a riflettere su ciò che il mito veramente raccontava – e capì di non aver capito, sino allora, un punto essenziale: che anche il mito è una «scienza esatta», dietro la quale si stende l’ombra maestosa di Ananke, la Necessità. Anche il mito opera misure, con precisione spietata: non sono però le misure di uno Spazio indefinito e omogeneo, bensì quelle di un Tempo ciclico e qualitativo, segnato da scansioni scritte nel cielo, fatali perché sono il Fato stesso. È questo Tempo che muove il «mulino di Amleto», che gli fa macinare, di èra in èra, prima «pace e abbondanza», poi «sale», infine «rocce e sabbia», mentre sotto di esso ribolle e vortica l’immane Maelstrom. Di questo «mulino di Amleto» gli autori seguono le tracce in un percorso vertiginoso, da Shakespeare a Saxo Grammaticus, dall’Edda al Kalevala, dall’Odissea all’epopea di Gilgameš, dal Rg-Veda al Kumulipo, vagando dalla Mesopotamia all’Islanda, dalla Polinesia al Messico precolombiano. I disiecta membra del pensiero mitico, che ama «mascherarsi dietro a particolari apparentemente oggettivi e quotidiani, presi in prestito da circostanze risapute», cominciano qui a parlarci un’altra lingua: là dove si racconta di una tavola che si rovescia o di un albero che viene abbattuto o di un nodo che viene reciso non cerchiamo più il luogo di quegli eventi su un atlante, ma alziamo gli occhi verso la fascia dell’eclittica, la vera terra dove si svolgono gli avvenimenti mitici, il luogo dove si compiono i grandi peccati e le imprese eroiche, il luogo dove si è compiuto il dissesto originario, fonte di tutte le storie, che fu appunto lo stabilirsi dell’obliquità dell’eclittica. Da quell’evento consegue il fenomeno delle stagioni, archetipo della differenza e del ritorno dell’uguale. Così il «mulino di Amleto» si rivelerà alla fine essere la stessa «macchina cosmica». «I veri attori sulla scena dell’universo sono pochissimi, moltissime invece le loro avventure»: Argonauti che solcano l’Oceano delle Storie, navighiamo qui sulla rotta di quelle avventure, che vengono ricomposte usando frammenti della più disparata provenienza, vocaboli dei molti «dialetti» di una lingua cifrata e perduta, «che non si curava delle credenze e dei culti locali e si concentrava invece su numeri, moti, misure, architetture generali e schemi, sulla struttura dei numeri, sulla geometria». Ma il mito si lascia spiegare soltanto in forma di mito: la struttura del mondo può essere soltanto raccontata. È questo il sottinteso dalla forma labirintica, di temeraria fuga musicale, che si dispiega nelle pagine del Mulino di Amleto. Qui la Biblioteca di Babele torna finalmente a essere invasa dai flutti del Maelstrom e, attraverso un velo equoreo, intravediamo la dimora del Sovrano spodestato, Kronos-Saturno, che un tempo stabilì le misure del mondo e del destino. Frutto di un lungo lavoro in comune con Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto apparve negli Stati Uniti nel 1969 e da Adelphi nel 1983.