NULLA VERITAS SINE TRADITIONE


11 dicembre 2012

Sulla Regalità di Cristo


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18 novembre 2012

San Bernardo di Clairvaux



           Abate Cistercense e Dottore della Chiesa
            (Celebrazione: 20 Agosto)

Nato nel 1090 a Fontaine-lès-Dijon, all’età di ventidue anni entrò nell’abbazia di Cîteaux, da poco fondata, persuadendo altri trenta giovani nobili a seguirlo. Aveva appena finito il suo noviziato, quando fu mandato a fondare e governare l’abbazia di Clairvaux (1115).
Durante la sua vita fondò sessantotto case dell’Ordine, fu consigliere di papi, re e concili, predicò la seconda crociata e fu l’arbitro dell’Europa, colui che, come si disse, «portò il XII secolo sulle sue spalle».
Nel campo teologico confutò le argomentazioni di Abelardo, scrisse sull’amore di Dio, commentò per i suoi monaci il Cantico dei Cantici, mandò a papa Eugenio III, che era stato un suo monaco, il pregevole trattato De Considerazione e scrisse molte altre opere, tra cui il celebre Liber ad Milites Templi. Morì a Clairvaux nel 1153. Canonizzato nel 1174, fu dichiarato dottore della Chiesa nel 1830.

14 ottobre 2012

I Templari



La bibliografia sui Templari è ricchissima ma spesso di dubbia qualità. Il lavoro di Alain Demurger, serio e documentato, colma l'assenza di una storia critica e scientifica dell'Ordine del Tempio, orientata a ridare all'istituzione il significato che le fu proprio: una delle creazioni più originali dell'Occidente medioevale del XII secolo.
L'autore si propone di ricostruire la vicenda dei "poveri cavalieri di Cristo" ricollegandola sia ai propri fondamenti religiosi-ideologici sia alla temperie della condizione politica estera negli anni a cavallo del XI - XII secolo, dove all'interno della cristianità si rafforzò l'idea di una crociata volta alla riconquista degli spazi legati alla figura di Cristo, in primo luogo Gerusalemme. La prima parte, appunto, tratta della nascita dell'ordine, voluta da due oscuri cavalieri, Ugo di Payns e Goffredo di Saint-Omer, in piena sintonia con le autorità regie di Gerusalemme, preoccupate dalla scarsa presenza di popolazioni latine negli stati cristiani d'oriente. L'iniziativa rispondeva anche a bisogni spirituali avvertiti come decisivi: rinunciare al secolo e dedicarsi alla preghiera e all'ascesi. Ciò che ci fu di realmente originale nell'istituzione dell'ordine del Tempio - e ancor prima in quello degli Ospitalieri - fu la conciliazione di due ambiti che fino ad allora erano rimasti nettamente distinti, il bellatores e l'oratores; in tal modo l'ideologia della crociata s'incarnava stabilmente in una determinata figura e perdeva il suo carattere di provvisorietà. Tale riunione, come l'autore dimostra, fu la conseguenza di un processo secolare di riflessione del cristianesimo sulla guerra che, in sintesi, centralizzò la propria attenzione non sull'evento in sé ma su suoi autori, arrivando a definire alcuni casi di guerre ritenute legittime e degne di essere combattute da un cristiano. Lo schema tripartito della società inserì definitivamente il cavaliere all'interno del cosmo voluto da Dio ed, anzi, cristianizzò attraverso complesse procedure simboliche il cavaliere stesso, proponendogli un modello di ascesi adatto al suo status. La logica del templare è precorritrice della logica del cavaliere.

L'istituto nacque tra il 1119 e il 1120 con la precisa finalità di proteggere i fedeli che si recavano in pellegrinaggio a Gerusalemme. Ben presto i Templari assunsero il ruolo di veri e propri difensori degli spazi di frontiera dei regni latini d'oriente, pagando un tributo altissimo di sangue, ma diventando elementi insostituibili nella difesa delle conquiste della prima crociata. Fu San Bernardo di Chiaravalle, nel suo De Laude, a chiarire definitivamente il ruolo dei Templari: essi avevano il compito speciale di proteggere i luoghi appartenuti all'esperienza terrena di Cristo. Compito estremamente complesso perché, ed è questo un motivo centrale del libro, ad un certo punto l'ideologia del crociato e quello del templare iniziarono a non collimare più: mentre per i primi, desiderosi di compiere il "Santo Passaggio", era essenziale combattere contro l'infedele anche cercando una valorosa morte in battaglia che, come affermato da San Bernardo, non andava temuta bensì ricercata, l'Ordine del Tempio, assieme alle autorità locali, ben presto comprese come la salvaguardia degli stati latini d'oriente potesse avvenire unicamente attraverso la mediazione e l'accordo, non il conflitto perenne. Si determinò così un'incomprensione destinata ad essere uno dei tanti capi d'accusa avanzati da Filippo il Bello e Guglielmo di Nogent nel processo del 1304.

Un secondo nucleo concettuale è rappresentato dall'analisi dell'articolazione socio-economica che garantiva il costante ricambio di uomini e mezzi. Il ruolo economico raggiunto dal Tempio nel XII e XIII secolo fu d'indubbia rilevanza. Il suo patrimonio fondiario si estendeva su gran parte dell'Europa occidentale e aveva come elemento essenziale la magione o la commenda, centro di vita capace sia di ricavare un surplus da spedire in Oriente, sia di estendere la propria influenza sulla regione circostante e attirare, di conseguenza, vocazioni. La tipologie di insediamento erano estremamente variegate e tennero conto dei contesti socio-economici nei quali si situavano. L'ordine, in accordo con le coeve esperienze cistercensi e cluniacensi, divenne molto spesso sede di una vera e propria "banca agricola", gestitrice dei fondi per conto di terzi, ma anche prestatrice di denaro, talvolta con interesse. La fitta rete di donazioni e acquisizioni contribuì a creare la leggenda di una straordinaria ricchezza dei Templari che, a suo tempo, diventerà fonte di pesanti accuse contro coloro che avevano fatto voto di povertà. In realtà l'autore dimostra efficacemente come tale convinzione alimentata da gelosi chierici secolari sia da ridimensionare e, soprattutto, come tutto ciò che si ricavava in Occidente servisse da sostegno logistico per le continue guerre negli stati latini d'oriente. L'ultima parte del libro è rappresentata dall'esplorazione delle ragioni per le quali la Francia di Filippo il Bello volle la soppressione dell'Ordine. L'autore correttamente non ricostruisce la storia dei Templari attraverso il processo, ma compara questa esperienza con le contemporanee realizzazioni degli Ospitalieri e dell'Ordine Teutonico. Se ne ricava un quadro che é assai più mosso rispetto alla pervicace volontà di soppressione del monarca francese e del suo entourage, perché le ragioni dell'improvvisa e violenta fine dei Templari vanno innanzitutto ricercate nelle progressive sconfitte che gli stati latini subirono in Oriente e nella lenta, ma avvertibile, modificazione dell'ideologia crociata. L'ultima grande vittoria cristiana sul mondo arabo fu nel 1191 con la conquista di Acri. La situazione nel XIII secolo divenne drammatica: gli stati d'occidente assistettero impotenti e profondamente divisi alla scomparsa lenta e progressiva di tutte le precedenti conquiste in Terra Santa, senza che fosse organizzata un'offensiva comune. Nel 1225 la corona di Gerusalemme risiedette in Sicilia sul capo di Federico II, poi diverrà angioina nel 1285, alla morte di tutti gli eredi dell'imperatore di Svevia. Di fronte a questa situazione gli ordini militari furono l'unica forza organizzata capace di opporre resistenza, in un periodo, però, in cui si affacciarono i primi dubbi sul valore della crociata. Ai Templari furono rimproverate di volta in volta la loro prudenza, i loro troppo frequenti contatti con il mondo musulmano, la loro avidità e il loro orgoglio. Accuse comuni anche agli altri ordini, ma che per Templari divennero fatali.

Perché il tempio? Esso fu al centro di una complessa partita che da un lato vedeva come protagoniste le nascenti monarchie nazionali di Filippo il Bello, Giacomo II, Edoardo I e Edoardo II, dall'altro l'autorità del pontefice. L'esito del processo non fu affatto necessario ma frutto di diverse circostanze e della gravissima responsabilità degli alti dignitari del Tempio che non seppero comprendere come dietro la battaglia lanciata contro l'ordine si celava uno scontro ormai decisivo tra autorità regia e autorità papale.
La caduta d'Acri nel 1291 rappresenta, secondo l'autore, un vero e proprio crocevia. Mentre gli Ospitalieri e i Teutonici seppero comprendere che in tale situazione l'unica possibile ancora di salvezza era la creazione di uno stato teocratico, per i primi a Rodi, per i secondi in Prussia, i Templari mantennero fede alla loro dimensione extraterritoriale, sorta di "Stato nello Stato, Chiesa nella Chiesa", affidandosi al loro principale protettore il pontefice, che nella bolla pontificia Omne datum optimum del 1139 aveva avocato a sé la giurisdizione dell'ordine sottraendola a quella dei vescovi e facendone un corpo militare direttamente rispondente ai suoi voleri. Un ordine armato era, però, impensabile alla fine del XIII secolo, momento di grande rafforzamento dell'autorità regia, che voleva ridurre i particolarismi e sopportava malvolentieri aree sulle quali non poteva esercitare compiutamente la propria giurisdizione.

Le accuse mosse ai Templari prese singolarmente non avrebbero potuto dimostrare nulla, ciò che risultò decisivo fu la volontà politica di trasformare mancanze disciplinari in un complesso e coerente bagaglio d'imputazioni legate all'eresia, rendendo manchevolezze riscontrabili in ogni ordine monastico reati sacrileghi. Spiccò dietro quest'operazione Guglielmo di Nogent che seppe ricavare le proprie prove attraverso un uso accorto ed abile della tortura, procedura giudiziaria organizzata in modo definitivo nel 1235 e affidata agli ordini mendicanti, domenicani e francescani, e che in processo venne per la prima volta usata diffusamente. Nel 1314 l'ultimo Gran Maestro, Giacomo di Molay, periva al rogo dichiarando la propria innocenza, abbandonato dal pontefice, suo principale protettore. Le motivazioni del monarca sono tuttora oggetto di ricerca e studio. L'interpretazione fornita dall'autore muove intorno alla volontà del re francese di guidare e organizzare una nuova crociata, promessa nel 1312 nel concilio di Vienne. Per attuarla occorrevano fondi ed uno strumento militare adeguato: di qui l'idea più volte espressa in diversi ambienti di fondere i due ordini, templare e ospitaliero e porli a capo di un rex bellator non sposato. Probabilmente Filippo, nipote di San Luigi, morto in crociata, figlio di Filippo III anch'egli morto in crociata (contro gli aragonesi) intendeva ricoprire tale incarico. Ciò segnava la condanna del Tempio.
"Gli ordini militari internazionali costituivano un ostacolo per lo sviluppo delle monarchie centralizzate. Essi non hanno una collocazione nello stato moderno: devono sottomettersi o sparire. Il Tempio e stato il capro espiatorio. Se abbia pagato per gli altri ordini, ha tutto sommato scarsa importanza: l'Ospedale era un ordine caritativo; pur senza mutare il proprio statuto ha saputo convertirsi (Rhodes)" (p.277). In sintesi questo è il nocciolo dell'argomentazione di un lavoro che ricostruisce e riflette la parabola di un'istituzione originale; lavoro d'indubbia qualità perché tiene costantemente unite l'esperienza templare e le altre consimili, ridandoci la percezione che i contemporanei avevano di queste realtà avvertite da subito come singolari. Ottimo libro il quale dovrebbe essere affiancato da un lavoro che, come ricorda lo stesso Demurger, ricostruisca la storia della leggenda templare nei secoli, perché lo storico non si occupa solamente del vero; si occupa anche del falso quando sia stato creduto vero; si occupa anche dell'immaginario e del sogno. Soltanto, si rifiuta di confonderli.

Dall’introduzione a “Vita e morte dell’Ordine dei Templari”, di Alain Demurger.

15 settembre 2012

Che cos'è la Tradizione



Sappiamo che una delle bêtes noires del Sessantotto era la parola «autorità». Ma la parola «autorità» ha senso unicamente se connessa a «tradizione».
E che cos’è la Tradizione?
Solo René Guénon è riuscito a restituire al termine il suo senso pieno, di conoscenza primordiale a cui dobbiamo in qualche modo ricongiungerci se vogliamo avere nozione di ciò che è. Ed è questo il punto di partenza del presente volume, che Zolla pubblicò nel 1971 quasi come gesto provocatorio verso un mondo che andava in opposta direzione.
Il tempo lo ha confortato: oggi i temi del libro sono più vivi che mai (basta scorrere i titoli delle parti: Civiltà della critica, civiltà del commento; L’odio della contemplazione; La città perfetta; Che cos’è il satanismo; Che cos’è il potere), e la radicale polemica legata al momento storico ha assunto un prezioso sapore retrospettivo.

www.adelphi.it

29 giugno 2012

Il Simbolo Atanasiano



Chiunque voglia salvarsi deve anzitutto possedere la fede cattolica.
Colui che non la conserva integra ed inviolata perirà senza dubbio in eterno.
La fede cattolica è questa: che veneriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità.
Senza confondere le persone e senza separare la sostanza.
Una è infatti la persona del Padre, altra quella del Figlio ed altra quella dello Spirito Santo.
Ma Padre, Figlio e Spirito Santo hanno una sola divinità, uguale gloria, coeterna maestà.
Quale è il Padre, tale è il Figlio, tale lo Spirito Santo.
Increato il Padre, increato il Figlio, increato lo Spirito Santo.
Immenso il Padre, immenso il Figlio, immenso lo Spirito Santo.
Eterno il Padre, eterno il Figlio, eterno lo Spirito Santo
E tuttavia non vi sono tre eterni, ma un solo eterno.
Come pure non vi sono tre increati né tre immensi, ma un solo increato e un solo immenso.
Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, onnipotente lo Spirito Santo.
Tuttavia non vi sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente.
Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio.
E tuttavia non vi sono tre Dei, ma un solo Dio.
Signore è il Padre, Signore è il Figlio, Signore è lo Spirito Santo.
E tuttavia non vi sono tre Signori, ma un solo Signore.
Poiché come la verità cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è singolarmente Dio e Signore, così pure la religione cattolica ci proibisce di parlare di tre Dei o Signori.
Il Padre non è stato fatto da alcuno: né creato, né generato.
Il Figlio è dal solo Padre: non fatto, né creato, ma generato.
Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio: non fatto, né creato, né generato, ma da essi procedente.
Vi è dunque un solo Padre, non tre Padri; un solo Figlio, non tre Figli, un solo Spirito Santo, non tre Spiriti Santi.
E in questa Trinità non v'è nulla che sia prima o poi, nulla di maggiore o di minore: ma tutte e tre le persone sono l'una all'altra coeterne e coeguali.
Cosicché in tutto, come già è stato detto, va venerata l'unità nella Trinità e la Trinità nell'unità.
Chi dunque vuole salvarsi, pensi in tal modo della Trinità.
Ma per l'eterna salvezza è necessario credere fedelmente anche all'Incarnazione del Signore nostro Gesù Cristo.
La retta fede vuole, infatti, che crediamo e confessiamo che il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo.
È Dio, perché generato dalla sostanza del Padre fin dall'eternità; è uomo, perché nato nel tempo dalla sostanza della madre.
Perfetto Dio, perfetto uomo: sussistente dall'anima razionale e dalla carne umana.
Uguale al Padre nella divinità, inferiore al Padre nell'umanità.
E tuttavia, benché sia Dio e uomo, non è duplice ma è un solo Cristo.
Uno solo, non per conversione della divinità in carne, ma per assunzione dell'umanità in Dio.
Totalmente uno, non per confusione di sostanze, ma per l'unità della persona.
Come infatti anima razionale e carne sono un solo uomo, così Dio e uomo sono un solo Cristo.
Che patì per la nostra salvezza, discese agli inferi, il terzo giorno è risuscitato dai morti.
E salito al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente, e di nuovo verrà a giudicare i vivi e i morti.
Alla sua venuta tutti gli uomini dovranno risorgere nei loro corpi e dovranno rendere conto delle proprie azioni.
Coloro che avranno fatto il bene andranno alla vita eterna: coloro, invece, che avranno fatto il male, nel fuoco eterno.
Questa è la fede cattolica, e non potrà essere salvo se non colui che l'abbraccerà fedelmente e fermamente.

19 maggio 2012

Vero Ritratto di Gesù



Riprodotto da quello fatto incidere dall'imperatore Tiberio su smeraldo, già proprietà del tesoro imperiale di Costantinopoli, caduto in mano ai Turchi nel 1413 e dal sultano Bajazet II donato a Papa Innocenzo VIII insieme con la Santa Lancia che ferì il costato del Signore, in riscatto del proprio fratello fatto prigioniero dalle armi cristiane a Rodi.
A questo dolcissimo ritratto iconografico fa riscontro quello letterario, non meno impressionante, della celebre lettera di Publio Lentulo, proconsole nella Giudea, allo stesso imperatore Tiberio.

A Tiberio Cesare salute.
Eccoti Maestà la risposta che desideri.

E’ apparso da queste parti, un uomo dotato di eccezionale potenza, e lo chiamano il Grande Profeta.
I suoi discepoli lo appellano Figlio di Dio. Il suo nome è Gesù Cristo.
In verità, o Cesare, ogni giorno si sentono cose prodigiose di questo Cristo, che risuscita i morti, guarisce ogni infermità e fa stupire tutta Gerusalemme con la sua dottrina straordinaria.
Egli è di aspetto maestoso con una splendente fisionomia piena di soavità, talché coloro i quali lo vedono, lo amano e lo temono a un tempo. Dicono che il suo viso roseo, con la barba divisa in mezzo, è di una bellezza incomparabile e che nessuno può fissarlo a lungo per il suo splendore.
Nei lineamenti, negli occhi cerulei, nei capelli biondi scuri Egli è simile alla madre, che è la più bella mesta figura, che si sia mai vista da queste parti.
Nei suoi detti decisi, gravi, inoppugnabili è l’espressione più pura della virtù e di una sapienza che supera di gran lunga quella dei più grandi genii.
Nel riprendere e rampognare è formidabile, nell’insegnare ed esortare è mite, amabile, affascinante.
Cammina scalzo, a capo scoperto, e in vederlo a certa distanza molti ridono, ma in sua presenza tremano e stupiscono.
Nessuno mai lo vide ridere, ma molti lo videro piangere. Tutti coloro che l’hanno praticato dicono di riceverne benefici e sanità. Però io sono molestato da maligni, che dicono che Egli sia a danno della Tua maestà perché afferma pubblicamente che re e sudditi sono uguali avanti a Dio. Comandami in proposito e sarai prontamente esaudito. Vale.

Publio Lentulo

20 aprile 2012

Un Grande di tutti i tempi: Roberto il Guiscardo



Roberto I d'Altavilla, detto il Guiscardo
duca normanno
(Hauteville, 1015/1020 – Cefalonia, 17 luglio 1085)

Figlio di Tancredi d'Altavilla, venne in Italia intorno al 1040. Chiamato dal fratello Drogone, giunse in Calabria, cominciandone la conquista sistematica, prima sotto il comando dello stesso Drogone e poi dell'altro fratello Umfredo.
Dopo la vittoriosa battaglia di Civitate (1053), in cui i Normanni sconfissero le truppe del Papa Leone IX, al quale in seguito giurarono fedeltà, Roberto, morto il fratello Umfredo, fece sancire la propria elezione a conte di Puglia (1057). Sottomessa interamente la Calabria (1060), mosse quindi alla conquista della Sicilia, grazie all'aiuto di un altro fratello, Ruggero, che portò a termine l'impresa.
Nel Concilio di Melfi (1059), Roberto fu investito da Nicolò II del ducato di Puglia, Calabria e Sicilia, benché questi territori fossero ancora non completamente conquistati. Continuò allora la lotta contro i Bizantini, cacciandoli definitivamente dall'Italia con la conquista di Bari (1071). Successivamente, passò agli ultimi centri di resistenza, Amalfi e Salerno, combattendo soprattutto contro Gisulfo II, che aveva dalla sua Riccardo I, principe di Capua. Prima a cadere in potere del Guiscardo fu Amalfi. Questa conquista accelerò la caduta di Salerno (1077), mentre Gisulfo si ritirava presso la corte papale.
Costituito il proprio stato, Roberto si occupò di dargli forza all'interno e di vincere le numerose ostilità da parte dei signori, insofferenti della dominazione normanna, e delle città, le quali non volevano perdere le loro autonomie. La grande abilità del Guiscardo consentì tuttavia di ristabilire la calma e organizzare amministrativamente tutte le terre conquistate.
Sempre preoccupato dalla potenza bizantina, padrona dell'Adriatico, Roberto salpò con la flotta verso Valona (1081), conquistò Corfù e, dopo aver sconfitto Alessio Comneno, occupò Durazzo (1082).
Interrotta la marcia su Costantinopoli per correre in aiuto di Gregorio VII, assediato a Roma da Enrico IV, riuscì a liberarlo conducendolo a Salerno (1084).
Nell'autunno del 1084 riprese la lotta in Oriente, ma, ripresa Corfù, morì durante l'assedio di Cefalonia.

21 marzo 2012

Chiesa moderna



Verrà il tempo, infatti, in cui non sopporteranno la sana dottrina ma, per prurito di udire, si accumuleranno maestri secondo le loro proprie voglie
e distoglieranno le orecchie dalla verità per rivolgersi alle favole.

(2 Timoteo 4, 3-4)



uno...
due...
e tre

12 febbraio 2012

Il mulino di Amleto



Il mulino di Amleto è uno di quei rari libri che mutano una volta per tutte il nostro sguardo su qualcosa: in questo caso sul mito e sull’intera compagine di ciò che si usa chiamare «il pensiero arcaico». Cresciuti nella convinzione che la civiltà abbia progredito «dal mythos al logos», «dal mondo del pressappoco all’universo della precisione», in breve dalle favole alla scienza, ci troviamo qui di fronte a uno spostamento della prospettiva tanto più sconcertante in quanto è condotto da uno dei più eminenti illustratori del «razionalismo scientifico»: Giorgio de Santillana. Proprio lui, che aveva dedicato studi memorabili a Galileo e alla storia della scienza greca e rinascimentale, si trovò un giorno a riflettere su ciò che il mito veramente raccontava – e capì di non aver capito, sino allora, un punto essenziale: che anche il mito è una «scienza esatta», dietro la quale si stende l’ombra maestosa di Ananke, la Necessità. Anche il mito opera misure, con precisione spietata: non sono però le misure di uno Spazio indefinito e omogeneo, bensì quelle di un Tempo ciclico e qualitativo, segnato da scansioni scritte nel cielo, fatali perché sono il Fato stesso. È questo Tempo che muove il «mulino di Amleto», che gli fa macinare, di èra in èra, prima «pace e abbondanza», poi «sale», infine «rocce e sabbia», mentre sotto di esso ribolle e vortica l’immane Maelstrom. Di questo «mulino di Amleto» gli autori seguono le tracce in un percorso vertiginoso, da Shakespeare a Saxo Grammaticus, dall’Edda al Kalevala, dall’Odissea all’epopea di Gilgameš, dal Rg-Veda al Kumulipo, vagando dalla Mesopotamia all’Islanda, dalla Polinesia al Messico precolombiano. I disiecta membra del pensiero mitico, che ama «mascherarsi dietro a particolari apparentemente oggettivi e quotidiani, presi in prestito da circostanze risapute», cominciano qui a parlarci un’altra lingua: là dove si racconta di una tavola che si rovescia o di un albero che viene abbattuto o di un nodo che viene reciso non cerchiamo più il luogo di quegli eventi su un atlante, ma alziamo gli occhi verso la fascia dell’eclittica, la vera terra dove si svolgono gli avvenimenti mitici, il luogo dove si compiono i grandi peccati e le imprese eroiche, il luogo dove si è compiuto il dissesto originario, fonte di tutte le storie, che fu appunto lo stabilirsi dell’obliquità dell’eclittica. Da quell’evento consegue il fenomeno delle stagioni, archetipo della differenza e del ritorno dell’uguale. Così il «mulino di Amleto» si rivelerà alla fine essere la stessa «macchina cosmica». «I veri attori sulla scena dell’universo sono pochissimi, moltissime invece le loro avventure»: Argonauti che solcano l’Oceano delle Storie, navighiamo qui sulla rotta di quelle avventure, che vengono ricomposte usando frammenti della più disparata provenienza, vocaboli dei molti «dialetti» di una lingua cifrata e perduta, «che non si curava delle credenze e dei culti locali e si concentrava invece su numeri, moti, misure, architetture generali e schemi, sulla struttura dei numeri, sulla geometria». Ma il mito si lascia spiegare soltanto in forma di mito: la struttura del mondo può essere soltanto raccontata. È questo il sottinteso dalla forma labirintica, di temeraria fuga musicale, che si dispiega nelle pagine del Mulino di Amleto. Qui la Biblioteca di Babele torna finalmente a essere invasa dai flutti del Maelstrom e, attraverso un velo equoreo, intravediamo la dimora del Sovrano spodestato, Kronos-Saturno, che un tempo stabilì le misure del mondo e del destino. Frutto di un lungo lavoro in comune con Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto apparve negli Stati Uniti nel 1969 e da Adelphi nel 1983.