NULLA VERITAS SINE TRADITIONE


28 dicembre 2023

La Compagnia dei Sacerdoti di San Sulpizio

 


La Compagnia dei Sacerdoti di San Sulpizio, fondata nel 1642 dal venerabile Jean-Jacques Olier (1608-1657), si proponeva la formazione del clero nei seminari.

Olier, ordinato sacerdote nel 1633, dopo aver esercitato per un certo tempo il ministero sacerdotale a Pébrac nell'Alvernia, di cui era abate commendatario, seguendo il consiglio di San Vincenzo de' Paoli, raccolse un piccolo numero di sacerdoti e di chierici in una casa di Rue Vaugirard a Parigi (1642), poi trasferitisi nel sobborgo di Saint-Germain (1645), all'epoca uno dei peggiori di Parigi, presso la chiesa di San Sulpizio, dalla quale derivò il nome di “sulpiziani”.

In questo primo seminario, superiori e alunni conducevano vita comune, per raggiungere la perfetta formazione sacerdotale mediante l'esempio e la parola; tale usanza costituiva la dote caratteristica e speciale dei sulpiziani. Infatti, i direttori e i professori, anche al presente, fanno la vita dei seminaristi, prendono parte a tutti gli esercizi della comunità e sono sempre a disposizione degli alunni.

Olier rifiutò l'episcopato offertogli da Luigi XIII e da Richelieu, ma non poté rifiutare la direzione della parrocchia di San Sulpizio, che contava allora oltre 150.000 anime e nella quale rimase per dieci anni in attivo apostolato, fondandovi scuole, orfanotrofi e associazioni per l'assistenza degli infermi, così che i suoi seminaristi poterono anche esercitarsi nel ministero pastorale.

Quando egli morì, aveva già veduto la fondazione del Gran Seminario di Parigi (1651) e i sacerdoti della sua compagnia alla direzione di vari seminari francesi, che dopo la sua morte dovevano sempre più moltiplicarsi.

Il suo successore alla direzione generale dell'istituto, Alexandre Le Ragois de Bretonvilliers, ottenne dal cardinale Flavio Chigi, legato pontificio in Francia, le lettere patenti di approvazione (1664) e, grazie alla considerevole fortuna della sua famiglia, poté largamente contribuire alla fondazione del seminario di Montreal in Canada, dove Olier aveva già inviato quattro dei suoi nel 1656. Durante il governo del terzo superiore generale, mons. Tronson (1676-1700), fu fondato il Piccolo Seminario di Parigi.


20 novembre 2023

Le origini dei poemi omerici non sono mediterranee (seconda parte)

 


Per gli storici la base narrativa su cui vennero costruite l’Iliade e l’Odissea sarebbero stati i racconti degli aedi, i poeti girovaghi che narravano le gesta eroiche dei re Achei. L’origine della civiltà achea (o micenea) viene ricondotta dagli studiosi a quella minoica, che ha nell’isola di Creta il suo fulcro, ma non tutti sono di questo parere, come Stuart Piggott (“Non c’è sangue minoico o asiatico nelle vene delle muse greche…esse si collocano lontano dal mondo cretese-miceneo e a contatto con gli elementi europei di cultura e di lingua greca”). E’ possibile allora che i Micenei fossero provenuti dal nord Europa?

Adriano Romualdi, nel suo “Gli Indoeuropei: origini e migrazioni”, riporta una considerazione di O. Reche, studioso tedesco, secondo il quale «difficilmente i Greci avrebbero adoperato la parola “arcobaleno” (iris) per designare l’iride della pupilla (come i Tedeschi: Regenbogenhaut = iride) se avessero avuto occhi scuri. Solo un popolo con occhi azzurri, o grigi, o verdi può chiamare l’occhio “arcobaleno”».

Gli Dei e gli eroi delle epopee omeriche sono spesso descritti con attributi delle popolazioni nordiche: Achille, modello dell’eroe acheo, è biondo come Sigfrido, biondi sono detti Menelao, Radamante, Briseide, Meleagro, Agamede, Ermione. Elena, per cui si combatte a Troia, è bionda, e bionda è Penelope nell’Odissea. Afrodite è bionda, come pure Demetra. Atena è, per eccellenza, l’ “occhicerulea Atena”. Il termine adoperato è glaukopis, che certo è in relazione anche col simbolismo della civetta, sacra alla dea (glaux = civetta: occhi scintillanti, occhi di civetta), ma che in senso antropomorfico vale “occhicerulea”: Aulo Gellio (Il, 26, 17) spiega glaucum con “grigio-azzurro” e traduce glaukopis con caesia “die Himmelbluaugige“.

Anche gli indizi archeologici citati da Vinci sembrerebbero condurre verso un’origine nordica dei Micenei, come il ritrovamento fatto dal prof. Martin P. Nilsson di grandi quantità di ambra baltica nelle più antiche tombe micenee (che invece scarseggia sia nelle sepolture più recenti, sia in quelle minoiche a Creta), o il ritrovamento di un graffito miceneo nel complesso megalitico di Stonehenge, datato attorno all’inizio del II millennio a.C., che attesterebbe la presenza degli Achei nel nord dell’Europa in un’epoca precedente all’inizio della civiltà micenea in Grecia.

Quindi alla luce di queste considerazioni fatte, e con l’ausilio delle descrizioni omeriche e di altri testi dell’antichità classica, Vinci ha ricostruito l’intera toponomastica omerica nella zona del Mar Baltico, procedimento sul quale si impernia tutta la sua opera con risultati molto interessanti. Ad esempio l’Itaca di Ulisse sarebbe da identificarsi con Lyo, una delle tre principali isole di un piccolo arcipelago danese (la altre due sono Langeland, corrispondente a Dulichio, e Aero, la Same omerica), che coinciderebbe perfettamente con le indicazioni del poeta sia per la posizione, sia per le caratteristiche topografiche e morfologiche. Mentre il Peloponneso, a cui Omero si riferisce con “isola di Pelope”, sarebbe da identificare nell’isola danese di Sjaelland e non nella penisola greca. Insomma la ricostruzione dei toponimi effettuata dal Vinci riscontra una forte coerenza e precisione, che è però impossibile sintetizzare in questa sede trattandosi di un’opera di 700 pagine!

Ma perché gli Achei sarebbero emigrati dall’area baltica per giungere nella penisola greca? La causa sarebbe stata l’irrigidimento del clima dell’area baltica, avvenuto intorno alla metà del II millennio, individuato in quest’epoca dalla paleoclimatologia, che avrebbe costretto gli Achei a spingersi verso sud lungo il corso del fiume Dnepr giungendo al Mar Nero e all’Egeo. Qui avrebbero fondato le città micenee, rinominandole con i nomi delle località nordiche, in modo non corrispondente alla collocazione originaria per le differenze geografiche e morfologiche che ci sono tra le due regioni.

Con la migrazione avrebbero inoltre portato con sé i propri tradizionali racconti orali, una saga poetica ambientata nelle località della patria originaria, tra il mar Baltico e il Mare del Nord. La guerra di Troia si sarebbe svolta dunque non intorno al XIII secolo a.C., come normalmente ritenuto, ma intorno al XVIII secolo a.C. Dopo ottocento o novecento anni di trasmissione orale, i poemi sarebbero quindi stati trascritti tra l’VIII e il VII secolo a.C.

Alla luce di quanto è stato riportato si può affermare, senza il timore di commettere un azzardo, che le origini dei poemi omerici non devono essere collocate nell’area mediterranea.


da “Il Mito di Theuth”


14 ottobre 2023

Le origini dei poemi omerici non sono mediterranee (prima parte)

 


Nel lontano 1903, Bal Gangadhar Tilak, attivista e politico indiano, pubblicava “La dimora artica nei Veda”, opera nella quale si sosteneva, sulla base di una meticolosa analisi dei testi sacri agli Indù, che la patria originaria (Urheimat) degli Arii fosse da collocare in prossimità del Polo Artico. La tesi del Tilak aveva qualcosa di sensazionale e non passò inosservata: viene citata sia dallo studioso francese della Tradizione René Guénon nel suo “Forme tradizionali e cicli cosmici” (1970, pubblicazione postuma) che da Julius Evola in “Rivolta contro il mondo moderno” (1930). Ma i Veda non sono i soli testi della Tradizione a far riferimento a una patria polare degli Arii, dal momento che si parla dell’ “Airyana Vaejah” nell’Avesta persiana, che il prof. Onorato Bucci ricollega nei suoi studi alla sede di origine nordica.

Anche tra i testi del periodo classico gli esempi non mancano: il navigatore Pitea (circa 380 a.C. – circa 310 a.C.) nei suoi scritti fa riferimento all’isola di Thule, terra di fuoco e ghiaccio nella quale il sole non tramonta mai, a circa sei giorni di navigazione dall’attuale Gran Bretagna. Secondo la sua descrizione l’economia del paese sarebbe stata legata prevalentemente all’agricoltura, mentre l’alimentazione dei suoi abitanti sarebbe stata costituita da frutta e latte, oltre che da una particolare bevanda fatta di grano e miele che loro stessi fabbricavano. A differenza delle popolazioni dell’Europa meridionale, gli abitanti di questa isola avevano granai all’interno dei quali effettuavano la trebbiatura dei cereali.

La questione di una possibile dimora originaria nordica degli Arii è stata riportata in auge in tempi relativamente recenti da un interessante studio di un ingegnere italiano, Felice Vinci, dal titolo “Omero nel Baltico”, libro che in meno di vent’anni è giunto alla quinta edizione.

Secondo la tesi dell’autore, i poemi omerici presenterebbero delle descrizioni geografiche e climatiche che non troverebbero alcun riscontro nell’area del Mediterraneo. I riferimenti alla “fitta nebbia”, il mare che appare “livido” e “brumoso”, il costante incontro che i personaggi delle vicende fanno con agenti climatici quali nebbia, vento, freddo, pioggia e neve sono certamente inverosimili, se non improbabili, per un clima caldo come quello mediterraneo, trovando semmai riscontro in quello freddo del nord. Non a caso i personaggi omerici vestono con tunica e “folto mantello”.

Lo stesso Vinci sottolinea che in tempi recenti alcuni studiosi sono riusciti a decifrare la lingua micenea (“lineare B”), delle tavolette provenienti da Cnosso, Pilo e Micene, mettendo in rilievo l’assoluta mancanza di contatto tra la loro realtà geografica e quella di Omero.

La questione relativa alla geografia delle opere omeriche non è certamente un’esclusiva dei nostri tempi, dal momento che era già dibattuta nell’antichità. Eratostene (matematico, astronomo, geografo e poeta, Cirene, 276 a.C. – Alessandria d’Egitto, 194 a.C.), ad esempio, descriveva Omero come un inventore di favole, mentre Strabone (storico e geografo greco, 63 a.C. – 23 d.C.), che considerava il poeta il fondatore della scienza geografica, non mancava di sottolineare alcune stranezze, come l’isola di Faro, che, situata nei pressi del porto di Alessandria, veniva inspiegabilmente collocata a un giornata di navigazione dall’Egitto. Anche la posizione di Itaca, che ritroviamo descritta con precisione nell’Odissea, (secondo Omero è la più occidentale di un arcipelago che comprende tre isole maggiori: Dulichio, Same e Zacinto) non trova alcuna corrispondenza nella realtà geografica dell’omonima isola nello Ionio, la quale è collocata a nord di Zacinto, a est di Cefalonia e a sud di Leucade, e, anche dal punto di vista topografico, ha ben poco a che vedere con l’Itaca omerica.

Continuando a sfogliare il folto elenco di incongruenze e anomalie, troviamo la descrizione pianeggiante del Peloponneso, riportata in entrambi i poemi omerici, quando in realtà essa si presenta come una zona montuosa, o la successione delle tappe del viaggio di Ulisse che ha lasciato non poche perplessità agli studiosi dal momento che evidenzia una totale mancanza di logica itinerante.


da “Il Mito di Theuth”